domenica 10 giugno 2012


Caro Max,
Anni fa ho visto un film: un uomo oltre la soglia dei cinquanta, con figli grandi e lontani, perde la moglie, ed intraprende un viaggio in camper per ritrovare la serenità; per tutta la durata del film, scrive delle lettere ad un bambino africano adottato a distanza, ed una voce narrante legge più volte l’incipit “Caro Ndugu…”
Quando ho visto quel film ero ancora liceale e per me l’Africa era solo un sogno lontano ed un punto fermo nel dedalo di emozioni contrastanti che mi muovevano. Ho sempre pensato che un giorno, quando anche io avessi avuto la possibilità di sostenere a distanza un bambino africano, avrei scritto delle lettere, così, per raccontare la mia vita a qualcuno che forse non può capirne nulla, magari senza neanche spedirle. Quando però poi, cinque anni fa, è arrivata Mareme, non l’ho mai fatto: forse perché quell’idea aveva valore solo in quanto idea, distante, romanzata.
Nel frattempo l’Africa ha determinato le scelte più importanti dei miei diciotto anni, ed è diventata una realtà tangibile, odori, suoni, colori.
Quando, qualche mese fa, è morto Masseye, mi è tornata in mente la storia delle lettere a Ndugu, e poiché ho pianto tante volte per questo bambino che non siamo riusciti ad aiutare, gli ho rivolto tantissimi pensieri. Quando tornavo a casa dopo una giornata in ospedale, con la musica dell’autoradio a volume massimo e le lacrime sulle guance, ho chiesto a Masseye il perché di tante cose, dato che io non riesco a trovarlo. Eppure non ho mai scritto a Masseye, e credo sia perché lui era solo un bambino di sei anni, meno due l’ultima volta che l’ho visto, un bambino della periferia di Dakar: cosa posso avere in comune con un essere umano così diverso da me? Posso contare sulle dita delle mani le volte in cui ci siamo visti: l’ho conosciuto la prima volta a casa sua, nel marzo 2009, quando siamo andati a fare una riunione lì e Malaye, lo zio che ci ospitava, ci ha offerto noccioline: lui è arrivato, goloso, aveva neanche quattro anni, e ce le siamo divisi, ed ho scattato quella foto con i miei piedi, grossi e pallidi, a contatto con i suoi, piccoli e neri. In quello stesso viaggio l’ho poi visitato una volta, e poi non ricordo, quella volta delle febbre alta era a marzo o a novembre? A novembre sicuramente la storia delle lesioni al volto, quella volta lo vidi due volte, e la seconda stava bene, era quasi del tutto guarito e cicatrizzato ed abbiamo anche mangiato dallo stesso piatto, cheoubouchen. E poi? Quand’è che abbiamo fatto il colloquio per l’adozione a distanza? E poi a marzo 2010, l’ultima volta, era in casa e di nuovo malato e l’ho visto per poco, forse una visita. Non ricordo, non ricordo bene.
Non ho mai scritto a Masseye neanche una lettera finta, cosa dovrei dirgli?
Però con te magari è diverso. Un uomo di più di quarant’anni, per quanto senegalese, per quanto povero, con un adulto ho forse più cose in comune, forse tu capivi di più, e poi abbiamo condiviso tanto, dalla prima volta in cui ci siamo visti, appena scesa dall’aereo, così stordita, eravamo sul pulmino che ci avrebbe portati a casa, io dietro e tu davanti, accanto al conducente, con mio padre, e quando lui ti ha detto che ero sua figlia ti sei messo a esclamare: “La fille de Cesare!”
Strani, questi bianchi, che si portano le figlie non ancora maritate a far missioni sanitarie in Senegal.
Ho sempre avuto un po’ pena di te. Eri un uomo particolare, a volte sembravi un bambino, hai perfino chiesto a mio padre di chiamarlo papi come facevo io, e mi hai detto che ero tua sorella, ma lo hai fatto un po’ con tutti noi dell’associazione, perché eri così: includevi tutti nella tua famiglia, o forse volevi far parte delle nostre, o forse era solo paraculaggine e speravi di ricavarne qualcosa. Papà ti dava 5000CFA per tornare a casa col taxi la sera, diamine, neanche otto euro! E tu tornavi a piedi, ci mettevi ore, e con quelli probabilmente la tua famiglia ci campava giorni.
E quella volta che siam finiti alla gendarmerie, e ci volevano denunciare, altro che famiglia! Sei scomparso per riapparire quando ci hanno rilasciato, giusto in tempo per la cena.
Una volta mi hai anche fatto paura: quella volta alla marcia della pace, eri palesemente ubriaco e mi hai fatto tutto quel discorso sull’amore di cui non ho capito nulla, e mi sono spaventata, credevo di aver fatto qualcosa di sbagliato e che tu avessi frainteso qualche mio gesto: fratelli e sorelle del mondo sì, ma siam comunque parte di due culture diverse, e i confini ci sono.
Così scrivo a te, forse capisci. Non so neanche bene cosa voglio dire. Per far giusto un elenco, semplice da capire: non riesco ancora a capacitarmi che anche tu sia morto e che non ti troverò, quando tornerò laggiù. Devo ricordarmi di salutare con altri occhi, d’ora in poi, ogni persona: non so quando e se potrò rivederla; con te non mi è stato possibile.
Non riesco ancora a capacitarmi che si possa morire in questa maniera. In Africa l’età media è più bassa, in Africa i bambini muoiono di fame, in Africa ogni otto secondi… ma un bambino è diverso da Masseye, età media non è Max di quarantacinque anni. Ai nomi comuni si sostituiscono quelli con la maiuscola, persone, e per me non fa differenza che tu sia di Dakar e un altro mio amico di Torrevecchia: che differenze avete? Nessuna. Un amico che muore è un amico che muore, ed il fatto che possa accadere in questa maniera, il pensiero che se fossi stato italiano non sarebbe successo, non mi aiuta affatto.
Ora che sei morto aiuteremo i tuoi bambini. Forse per loro sarà la svolta, forse no. Non saprò mai cosa pensano perché non si può mai sapere cosa pensa veramente un senegalese di te, bianco benefattore missionario che vai lì due mesi l’anno. Possibile dovessi morire per aiutarli? E di tutti gli altri orfani del Senegal, che ne facciamo? O di tutto il resto del mondo? È giusto privilegiarli perché eri nostro amico? Eravamo amici veramente, od ognuno inseguiva i suoi obiettivi, tu di trovare l’ennesimo stratagemma per mangiare e noi di sentirci diversi da queste popolazioni d’Occidente, noi illuminati che facciamo il “volontariato” per sentirci dire: “Oh, io non ce la farei mai, devi essere davvero forte per fare qualcosa del genere!”?
Patto malefico, o sotto sotto amicizia?
Ed ora, cosa devo fare?
Caro Max, come nel film, ora ti scrivo. Non ricordo affatto come continuava la trama: mi sembra fosse abbastanza noioso, in fin dei conti, e l’unico particolare che ricordo è questo delle lettere al bambino africano – l’unico che mi colpì, credo. Non so cosa volesse quell’uomo vecchio dal suo bambino a distanza.
Io a te pongo solo tante domande, perché non ho risposte. 

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